BISCOTTI
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Castello sulla collina, mura nere, sbuffi di fumo dalle torri.
Gambe e braccia dinoccolate in amaranto percorrevano il cortile di cemento spaccato, verso il mastio centrale. Il bastone sotto il braccio, in grembo un gatto color smog con il pelo sbruciacchiato a ciuffi.
Guljerm entrò nel mastio, salì le scale, l’accolse il salone nero. Il consorte, testa calva e spalle grosse, immerso tra gli ingranaggi che affollavano il suo tavolo.
Il socio appena entrato porse il gatto: “Ohibò! Ohibò, caro, osserva codesto piccolo felino, nota il pelo carbonizzato, mira questo faccino mesto e abbattuto. Ohibò, vuoi sapere cosa è successo a codesto micino?”
Al tavolo, Beastion rimase concentrato sul lavoro.
Guljerm attese a spalle dritte, poi le spalle calarono appena. Si schiarì la voce e con tono più stridulo, il gatto sempre proteso: “Ohibò, dico! Ohibò...”
Dal tavolo il consorte piombò un pugno sul piano, bum: “Ah! Non vuole funzionare!”
Guljerm fece un salto e strinse il gatto a sé, che miagolò: meeew! “Caro! Ohibò, cosa accade?”
Beastion si scosse e sembrò vedere solo allora il suo socio: “Come? Ah sì, giusto. Quei villani, se la prendono perfino con il povero Moffola 666. Non è sicuro se ne vada in giro così.”
“Ohibò, caro, questo è parlare! Calci, pugni, financo fiaccole accese.” La mano libera volò in aria: “Ma che fare, che fare per difenderlo?”
Beastion fece un sorriso diabolico sotto i mustacchi: “So io che fare. Portamelo qui.”
Guljerm tornò a stringere il gatto a sé: “Lì, caro? Perché, ordunque? Quali intenzioni covi, caro?”
L’inventore aggrottò la fronte sopra gli occhialoni da lavoro: “Farò in modo si possa difendere. Non ti fidi?”
Il socio sfoderò mille denti: “Ma che dici, caro? Ohibò, che dici, certo che mi fido, caro. Solo, sei sicuro che sia neces…”
Bum, pugno sul piano, pezzi volare per terra, sberebeg beng: “Moffola si dovrà far valere!”
Guljerm drizzò la schiena e scattò passi brevi, le mani tese a porgere il gatto: “Certo, caro, certo!” L’animale finì tra le braccia nerborute del padrone e cominciò a fare le fusa, prrr, il consorte si ritirò.
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Nuovo giorno sorto. Il cortile, il portone dell'hangar si sollevò, Guljerm uscì. Al centro del cemento spaccato, la bambina robot. Tra le mani di tenaglie il rotolo di pelo, prrr, accoccolato.
Guglierm si impettì, gli occhi spalancati, un momento di sorpresa: “Ohibò!” poi, mano sulla bombetta, corse verso la piccola: “Cara, cara! Quel felino!” arrivato alla piccola si fermò a qualche metro.
Lei lampeggiò gli occhi-fanale: “Che c'è papi? Perché guardi così Moffola 666?”
Lui sorrise, mostrando i palmi delle mani: “Ma niente, quel felino, niente, ti risulta essere in salute?”
Springlynn piegò appena la testa: “Perché papi? Cosa dovrebbe avere?”
“No niente, niente, cara. Intendo solo: non noti, magari, un ché di strano, cara?”
“Strano?”
“Magari qualche piccolo dettaglio modificato da ier sera, che so, la coda, magari le unghie, o il pelo, o l’anima di demone, uno scheletro da robot, un corpo mutante ibridato poliforme?”
“Ma che dici papi? Moffola è normalissimo!”
Il gatto guardava fisso Guljerm, con gli occhi stretti, poi d'un colpo si divincolò e saltò giù dalle braccia d'acciaio. Con la coda dritta girò le terga e si diresse verso il portone tra le mura.
“Vedi papi, normale, come al solito.”
Il padre e la bambina di latta seguirono il gatto fino all'uscita. Quello si sedette lì di fronte guardando indietro. Springlynn attivò il contatto sul muro di cinta e il portone si scostò tanto da far passare il micio, che uscì e trotterellò lungo il sentiero ghiaiato che scendeva dalla collina.
Springlynn guardò il padre: “Oh, se n’è andato.” poi saltellò verso il mastio al centro del cortile.
Il portone cominciò a richiudersi. Guljerm puntò lo sguardo alla distanza tra i metalli che si riduceva. Di nuovo la mano sulla bombetta e scattò a scivolare di taglio nel pertugio, un istante prima che blam! si chiudesse.
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Fianco della collina, grilli e odore di terra secca.
Una strada, una radura, un carro con una cisterna di metallo e una ciminiera spenta.
Intorno contadini: tre seduti contro le ruote a tamponarsi il sudore, due in piedi con le braccia muscolose appoggiate alle falci, a parlare.
Ai lati della strada, grano. Tagliato, dietro il carro. Davanti, tra le spighe diritte, un frusciare. Si avvicinava, seguito da un frusciare più grosso.
Un contadino in piedi accennò all’altro indicando il muro dorato.
Il frusciare diventò un’ombra tra gli steli, si avvicinò ancora e sbucò il felino del castello.
Il contadino gridò: “Ehi!” e indicò. Gli altri seguirono il suo sguardo.
Il micio procedette flemmatico, miaooo, verso la strada davanti al carro.
Un seduto saltò in piedi: “È il gatto degli inventori.”
Uno già eretto sbraitò: “Se ci attraversa la strada è un anno di rogna.”
Un terzo: “Maledetto!”
Il quarto: “Fermiamolo!”
E il quinto brandì la falce dal lato del manico poi cominciò ad avvicinarsi: “Miciomicio, vieni.”
Gli altri lo seguirono.
Il gatto li guardò e miagolò: miao, si sedette a leccarsi i genitali.
Gli uomini incombettero.
Dal secondo fruscio saltò su l’inventore in amaranto, il completo imbottito di grano, spighe a spuntare da sotto la bombetta. Spinse i palmi in avanti: “Signori? Vi avverto, signori, che il caro Moffola 666…”
Grido dei contadini a interromperlo: “Ahhh!”
I manici si abbatterono sul micio; gli occhi gialli si spalancarono, un soffio: fsssh, gli artigli uscirono, le membra tese, e: booom!
Una fiammata, l’inventore strizzò gli occhi; odore di fumo, poi cadere di di lapilli. Guljerm strizzò la testa tra le spalle, scostò le palpebre, un tocco di terra gli cadde sulla bombetta: “Ahu!”
Davanti il fumo si dileguava, odore di carne bruciata, silenzio. No, lamenti: dai corpi a terra, i cinque contadini. Stesi, insanguinati, due incoscienti, tre si contorcevano. Uno si toccò il petto, da cui spuntava una piccola costola felina. Un altro raggiunse un mezzo femore di gatto piantato all’inguine, l’estrasse, con uno zampillo di sangue e un grido: “Ah!”
Guljerm digrignò i denti: “Sa farsi valere. Sì caro, si è proprio fatto valere.”