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Guljerm e il dentino


- come fu che il nostro imprenditore odorò la sua vocazione

Città, una grande città, tempo addietro. Una grande tenuta, un grande cancello. Dentro: cortile con botteghe, laboratori e magazzini. In fondo: la villa col portone e sull’arco in ferro battuto: “Famiglia Tambaliant Inestable, baroni di Svestones y Carembeza, cavalieri del buon vapore.”
Notte, la città spegneva le luci. Nella villa ancora rimanevano finestre illuminate, al terzo piano: la cameretta del rampollo di famiglia. Tutta agghindata di statuette di latta, giocattoli appesi alle pareti; costruzioni di ingranaggi, leve e pulegge sparse sul pavimento.
Nell’angolo il lettino, fatto di lamiere di recupero a forma di aeroplano, con sopra nuvole e uccelli e astronavine e pianeti di metallo che dondolavano dal soffitto. Tra le lenzuola il giovane Guljerm: caschetto biondiccio, lentiggini, denti un po’ sporgenti e pigiama rosso scuro. Accanto la mamma: vestaglia di seta, capelli bianchi come fili di ragnatela, mano pallida come uno soettro. Carezzava la guancia del figlio: “Invero, caro mio prediletto, erri perseverando nella tua posizione. La fatina dei dentini esiste eccome.”
“Dai mamma, sono grande ormai. Non credo più alle favole.”
“E in questo devi biasimarti. Non obliare mai i tuoi sogni, ed anzi rendili il sostentamento trainante della tua esistenza. Solo così vivrai una vita fulgida e appagante.”
Guljerm sbadigliò: “Va bene, va bene, mamma, come dici tu.”
Madonna Alicia tornò a carezzare la fronte del suo bambino, curvando la bocca fine in un sorriso amorevole: “È giunto il tempo di cedere al richiamo di Morfeo. Ti auguro un rinvigorente riposare.”
Guljerm sbadigliò ancora: “Buonanotte mamma.”
La signora percorse la cameretta ed uscì, proseguì nel corridoio, illuminato da fiammelle a gas che uscivano da cannule nei muri, entrò nell’anticamera della stanza da letto.
L'ambiente ammobiliato con quattro poltrone nere attorno al focolare e una scrivania in mogano era illuminato dai bagliori del fuoco. Al tavolo sedeva Don Vicente Tambaliant Inestable: la testa quadrata sul corpo minuto e secco e nervoso, si alzò dal foglio di latta che stava piegando a guardare la moglie: “Dorme?”
La donna sorrise: “Giace, sì, ma ho pensiero che veglierà tutta la notte.”
Don Vicente piegò il volto in una smorfia di disgusto e alzò la voce: “Come? E perché?”
“Temo, mio caro, che abbia l’intenzione di attendere l’arrivo della fatina dei denti, ‘sì da aver la prova di come essa sia solo una favoletta per pargoletti.”
Il marito alzò i pugni e sbottò: “Ah! Quel disgraziato non pensa ad altro che a darci grattacapi. Chissà quando crescerà un po’.”
Alicia si avvicinò alla scrivania: “Mio consorte, ti invito a considerare che il nostro erede ha visto appena sette primavere.”
“Appunto, di questo passo non sarà mai all’altezza di suo padre.”
La donna si torse le mani e lanciò uno sguardo preoccupato alla porta: “Ebbene, comunque, come possiamo porre rimedio a questo malaugurato contrattempo? Non sarebbe opportuno se nulla arrivasse a prendere quel dente, questa notte.”
Un sospiro, poi: “So già cosa mi vuoi chiedere. Ho giusto un pupazzetto meccanico che stavo completando per la mia collezione, lo posso adattare al caso.”
Un sorriso, di quelli luminosi e soavi che si fanno perdonare tutto: “Caro, non glorifico mai abbastanza il destino per quanto sono fortunata ad avere al mio fianco un siffatto marito.”

- - o - o - o - -

Alcune ore dopo, nella cameretta, sotto lenzuola color terreno lunare a coprire la carlinga. Il piccolo Guljerm lottava contro il sonno, in attesa. Determinato a sapere la verità, la testa coperta.
D’un tratto, gniiic, un lieve cigolio. La porta. Guljerm saltò un respiro, scostò il lenzuolo, per far uscire un occhio. Una lieve line chiara, la porta si era scostata. Cri cri cri, un minimo cigolare dal pavimento: qualcosa era in camera. Qualcosa di piccolo, l’occhio scattò qua e là.
Sul pavimento avanzava un’ombra, appena delineata nella quasi oscurità. Ascoltò. Veniva verso il letto. La sentì arrivare alle lenzuola e arrampicarsi.
Esisteva dunque! Ma non era, certo, una fatina volante.
Scivolò al centro del letto, la coperta sulla testa, a inquadrare il guanciale.
Qualcosa salì sul materasso, ptinf ptonf. Non era nemmeno una topino, o un folletto o uno spiritello. Quattro cerchi di latta per zampe, coperchi di lattine aperte, su cui erano agganciate stecche di metallo che le collegavano a una scatola di sardine a testa in giù. Due biglie incastrate sul davanti del bordo della scatola, che parevano occhi balenanti di fulgida attenzione nella poca luce che veniva dalla porta. Una specie di enorme blatta dai piedi piatti, o un geco obeso. Tremava con un gracchiare di molla da carillon, crrr crrr crrr, ogni volta che un piede si alzava, ruotava verso avanti e tlac, con uno scatto tornava a piantarsi sul materasso, facendo presa con il bordo frastagliato.
Al piccolo Guljerm molti pensierini affollarono la testa. La fatina era un giocattolo! Tutti, tutti i bambini dovevano sapere.
L’essere arrivò al cuscino, cercò di infilarcisi sotto.
Ma chi avrebbe creduto a quella notizia? A un bambino. Forse sua madre, ma di certo non suo padre: lui non gli credeva mai, lui lo credeva un incapace.
Gli occhi si velarono di tristezza. Poi gli prese un po’ di rabbia: questa volta, invece di andarsene a piangere in un angolo, gli avrebbe fatto vedere.
Strinse i denti: suo padre era nobile perché aveva sposato la mamma, del resto era solo un giocattolaio per passione, costruiva solo per sé, oggetti semoventi da parti meccaniche recuperate dagli scarti, come lattine; o scatolette, anche.
Lattine, e scatolette di sardine. Il marchingegno, bloccato, crrrrr, ronzava la sua carica a molla; come quelle che usava papà. Possibile l’avesse fatto papà? Sicuro: l’aveva fatto papà. La fatina non esisteva.
Lo prese un moto di frustrazione, poi un lampo di follia illuminò i suoi occhi: ancora meglio! Grazie papà: quel giocattolo avrebbe sostituito la fatina in tutte le case. Avrebbe venduto quel giocattolo e sarebbe diventato famoso.
Spostò il cuscino da sopra il suo prototipo.
L’animale si riprese dalla sua momentanea difficoltà, vide il dente, ora in campo aperto, gli si avvicinò, tlic tlac tlic tlac. L’animale raggiunse il dentino, ci si fermò sopra e cominciò a fremere, briiiii. Da sotto colò una sostanza marrone scuro, una melassa dalle striature verdastre, che coprì il dente e sbrodolò sul materasso, con un rumore a metà tra un rutto e un peto: bruuurph! Guljerm sentì pizzicare il naso, un istante dopo arrivò l’odore di pesce putrefatto e ammuffito, grasso acido e materia decomposta.
Il bimbo dovette tapparsi la bocca con le mani per non rimettere. La sostanza cominciò a sfrigolare e a sciogliere il dente, insieme al lenzuolo, e poi al materasso.
Tirò la coperta sul naso, sulla bocca, per tentare di difendersi dal fetore, mentre anche gli occhi bruciavano. Il mostriciattolo emise una specie di brooop e lasciò cadere sulla poltiglia che stava affondando nella lana una moneta di bronzo, poi cominciò ad allontanarsi.
Gujerm tentava di resistere alla nausea mentre pensava che forse quel prototipo non era un buon punto di partenza.